Domani è un altro giorno

martedì 25 febbraio 2014

Cosa ho davanti... Io, la miacasinaBELLA e lamiacasinaBUONA

Non so ancora se veramente come mi ero proposta a fine febbraio cesserà questa 'bozzadiblog' e partirò con un blog 'serio' e già penso a tre anni, ad esempio, avanti a me.
Adesso mi sento le due cose dell'immagine: un contenitore con cose che ho raccolto e che vorrei mostrare/dare a quante più persone possibile e un gomitolo, cioè della materia ancora grezza (le mie scarsissime conoscenze di network ad esempio) su cui lavorare.
Una riflessione è che nel mondo virtuale in cui sto facendo i primi passi è che mostrare è la stessa cosa che dare. Avete presente da piccoli quando si chiedeva ad un amico di farci vedere una cosa sua e questo ci rispondeva: 'Sì ma in mano mia'? Per me che ancora oggi tocco, liscio, soppeso qualsiasi materiale o cosa mi capiti a tiro, era una tortura. Ma oggi sono più le cose che 'possediamo' virtualmente di quelle che tocchiamo realmente.
E allora vorrei che il mio blog arrivasse ad essere questo: uno stimolo a provare, sperimentare, toccare, imparare realmente le cose, non solo vederle, leggerle, emozionarsi, ma poi smettere di cercarle e dimenticarle in un attimo.
Il prossimo anno sarà dedicato a cercare di raccogliere più spunti possibile per creare uno spazio intorno a noi più 'comodo e funzionale a noi stessi' possibile, un vero nido, una casinaBELLA.
Dopodiché gli spunti saranno indirizzati nel creare uno spazio aperto sul mondo, una casinaBUONA.
Quindi prima una ricerca sul trovare un nostro posto poi su come poterlo condividere.
Sto lavorando per cercare di creare un percorso per conoscere il posto in cui viviamo, i pregi e i limiti, funzionali ed estetici e per cercare di capire cosa invece ci piace e di cosa abbiamo bisogno, perché come ha detto Seneca: 'Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare'.
Partenza e meta sono definiti, ora viene la parte più bella:
il gusto di vivere.


martedì 18 febbraio 2014

FATTO A CUORE



ABBASSO LE ‘SPORTINE’!

A Bologna le sportine sono i sacchetti di plastica che ti danno nei negozi per mettere la spesa.
Sono, penso, il sistema di trasporto delle cose più diffuso.
Demonizzate per l’inquinamento, riabilitate quelle in carta o quelle infernali biodegradabili che se le dimentichi in un cassetto, si polverizzano, diventando dei coriandoli impossibili da raccogliere senza aspirapolvere e imprecazioni.
Solitamente nelle famiglie ci si divide in due nette categorie, quelli che sostengono che sono utilissime anzi insostituibili (come si fa a partire per la settimana bianca senza circondare le valigie di cento sportine?) e quelli che le odiano profondamente (non ne arriva una sana a destinazione!)
Ma diciamola tutta: non sono un po’ ‘grossier’, out, grezze per intenderci?
Io, essere stilosi a parte, non le sopporto proprio. Quando non ti servono, spuntano da tutti i buchi, quando ti servono non c’è mai quella della grandezza giusta. Quando poi si va ad una cena ‘partecipata’ dove ognuno porta qualcosa, con le bottiglie temi di sfondarle, con l’insalatiera non ‘stanno dritte’ e rischi di rovesciare tutto, la teglia calda poi le liquefa, quindi?
Quindi nel mio ingresso nel mondo del cucito creativo, ho pensato a tre sacchetti in stoffa, uno per le bottiglie, uno per le insalatiere e le torte e un altro per le teglie che scottano.


Eccole, coordinate, con stoffe che avevo in casa, e se decidessi di farne anche per altri? 

E voi siete pro o contro le 'sportine'?????





PORTA BOTTIGLIE
PORTATUTTO
PORTA TORTE

lunedì 27 gennaio 2014

giornata della memoria


Enzo Biagi intervista Primo Levi: “Come nascono i lager? Facendo finta di nulla”

L'incontro tra il partigiano antifascista torinese e il giornalista andò in onda su Raiuno l'8 giugno 1982 nel programma "Questo secolo". Lo scrittore raccontò la sua vita dal capoluogo piemontese al campo di concentramento polacco di Auschwitz e ritorno: "Non credemmo a quanto dicevano gli inglesi sullo sterminio degli ebrei. Eravamo stupidi e anestetizzati: abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno pagato"

Enzo Biagi intervista Primo Levi: “Come nascono i lager? Facendo finta di nulla”
Levi come ricorda la promulgazione delle leggi razziali?Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì Il manifesto della razza, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa, delusione sì, con grande paura sin dall’inizio mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè negare il pericolo.
Che cosa cambiò per lei da quel momento?Abbastanza poco, perché una disposizione delle leggi razziali permetteva che gli studenti ebrei, già iscritti all’università, finissero il corso. Con noi c’erano studenti polacchi, cecoslovacchi, ungheresi, perfino tedeschi che, essendo già iscritti al primo anno, hanno potuto laurearsi. È esattamente quello che è accaduto al sottoscritto.
Lei si sentiva ebreo?Mi sentivo ebreo al venti per cento perché appartenevo a una famiglia ebrea. I miei genitori non erano praticanti, andavano in sinagoga una o due volte all’anno più per ragioni sociali che religiose, per accontentare i nonni, io mai. Quanto al resto dell’ebraismo, cioè all’appartenenza a una certa cultura, da noi non era molto sentita, in famiglia si parlava sempre l’italiano, vestivamo come gli altri italiani, avevamo lo stesso aspetto fisico, eravamo perfettamente integrati, eravamo indistinguibili. 
C’era una vita delle comunità ebraiche?Sì anche perché le comunità erano numerose, molto più di ora. Una vita religiosa, naturalmente, una vita sociale e assistenziale, per quello che era possibile, fatta da un orfanotrofio, una scuola, una casa di riposo per gli anziani e per i malati. Tutto questo aggregava gli ebrei e costituiva la comunità. Per me non era molto importante.
Quando Mussolini entrò in guerra, lei come la prese?Con un po’ di paura, ma senza rendermi conto, come del resto molti miei coetanei. Non avevamo un’educazione politica. Il fascismo aveva funzionato soprattutto come anestetico, cioè privandoci della sensibilità. C’era la convinzione che la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente e in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato a vedere come erano messe le truppe che andavano al fronte occidentale, abbiamo capito che finiva male.

Illustrazione di Emanuele Fucecchi
Sapevate quello che stava accadendo in Germania?Abbastanza poco, anche per la stupidità, che è intrinseca nell’uomo che è in pericolo. La maggior parte delle persone quando sono in pericolo invece di provvedere, ignorano, chiudono gli occhi, come hanno fatto tanti ebrei italiani, nonostante certe notizie che arrivavano da studenti profughi, che venivano dall’Ungheria, dalla Polonia: raccontavano cose spaventose. Era uscito allora un libro bianco, fatto dagli inglesi, girava clandestinamente, su cosa stava accadendo in Germania, sulle atrocità tedesche, lo tradussi io. Avevo vent’anni e pensavo che, quando si è in guerra, si è portati a ingigantire le atrocità dell’avversario. Ci siamo costruiti intorno una falsa difesa, abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno pagato per questo.
Come ha vissuto quel tempo fino alla caduta del fascismo?Abbastanza tranquillo, studiando, andando in montagna. Avevo un vago presentimento che l’andare in montagna mi sarebbe servito. È stato un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo.
E quando è arrivato l’8 settembre?Io stavo a Milano, lavoravo regolarmente per una ditta svizzera, ritornai a Torino e raggiunsi i miei che erano sfollati in collina per decidere il da farsi.
La situazione con l’avvento della Repubblica sociale peggiorò?Sì, certo, peggiorò quando il Duce, nel dicembre ’43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto, che tutti gli ebrei dovevano presentarsi per essere internati nei campi di concentramento.
Cosa fece?Nel dicembre ’43 ero già in montagna: da sfollato diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato nel marzo del ’44 e poi deportato.
Lei è stato deportato perché era partigiano o perché era ebreo?Mi hanno catturato perché ero partigiano, che fossi ebreo, stupidamente, l’ho detto io. Ma i fascisti che mi hanno catturato lo sospettavano già, perché qualcuno glielo aveva detto, nella valle ero abbastanza conosciuto. Mi hanno detto: “Se sei ebreo ti mandiamo a Carpi, nel campo di concentramento di Fossoli, se sei partigiano ti mettiamo al muro”. Decisi di dire che ero ebreo, sarebbe venuto fuori lo stesso, avevo dei documenti falsi che erano mal fatti.
Che cos’è un lager?Lager in tedesco vuol dire almeno otto cose diverse, compreso i cuscinetti a sfera. Lager vuol dire giaciglio,vuoldireaccampamento,vuoldireluogo in cui si riposa, vuol dire magazzino, ma nella terminologia attuale lager significa solo campo di concentramento, è il campo di distruzione.
Lei ricorda il viaggio verso Auschwitz?Lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un vagone con cinquanta persone, c’erano anche bambini e un neonato che avrebbe dovuto prendere il latte, ma la madre non ne aveva più, perché non si poteva bere, non c’era acqua. Eravamo tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la volontà precisa, malvagia, maligna, che volevano farci del male. Avrebbero potuto darci un po’ d’acqua, non gli costava niente. Questo non è accaduto per tutti i cinque giorni di viaggio. Era un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il più possibile.
Come ricorda la vita ad Auschwitz?L’ho descritta in Se questo è un uomo. La notte, sotto i fari, era qualcosa di irreale. Era uno sbarco in un mondo imprevisto in cui tutti urlavano. I tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio. Questo l’ho capito dopo, serviva a far soffrire, a spaventare per troncare l’eventuale resistenza, anche quella passiva. Siamo stati privati di tutto, dei bagagli prima, degli abiti poi, delle famiglie subito.
Esistono lager tedeschi e russi. C’è qualche differenza?Per mia fortuna non ho visto i lager russi, se non in condizioni molto diverse, cioè in transito durante il viaggio di ritorno, che ho raccontato nel libro La tregua. Non posso fare un confronto. Ma per quello che ho letto non si possono lodare quelli russi: hanno avuto un numero di vittime paragonabile a quelle dei lager tedeschi, ma per conto mio una differenza c’era, ed è fondamentale: in quelli tedeschi si cercava la morte, era lo scopo principale, erano stati costruiti per sterminare un popolo, quelli russi sterminavano ugualmente ma lo scopo era diverso, era quello di stroncare una resistenza politica, un avversario politico.
Che cosa l’ha aiutata a resistere nel campo di concentramento?Principalmente la fortuna. Non c’era una regola precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto o il più ignorante, il più religioso o il più incredulo. Prima di tutto la fortuna, poi a molta distanza la salute e proseguendo ancora, la mia curiosità verso il mondo intero, che mi ha permesso di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza. Perdere l’interesse per il mondo era mortale, voleva dire cadere, voleva dire rassegnarsi alla morte.
Come ha vissuto ad Auschwitz?Ero nel campo centrale, quello più grande, eravamo in dieci-dodici mila prigionieri. Il campo era incorporato nell’industria chimica, per me è stato provvidenziale perché io sono laureato in Chimica. Ero non Primo Levi ma il chimico n. 4517, questo mi ha permesso di lavorare negli ultimi due mesi, quelli più freddi, dentro a un laboratorio. Questo mi ha aiutato a sopravvivere. C’erano due allarmi al giorno: quando suonava la prima sirena, dovevo portare tutta l’apparecchiatura in cantina, poi, quando suonava quella di cessato allarme, dovevo riportare di nuovo tutto su.
Lei ha scritto che sopravvivevano più facilmente quelli che avevano fede.Sì, questa è una constatazione che ho fatto e che in molti mi hanno confermato. Qualunque fede religiosa, cattolica, ebraica o protestante, o fede politica. È il percepire se stessi non più come individui ma come membri di un gruppo: “Anche se muoio io qualcosa sopravvive e la mia sofferenza non è vana”. Io, questo fattore di sopravvivenza non lo avevo.
È vero che cadevano più facilmente i più robusti?È vero. È anche spiegabile fisiologicamente: un uomo di quaranta-cinquanta chili mangia la metà di un uomo di novanta, ha bisogno di metà calorie, e siccome le calorie erano sempre quelle, ed erano molto poche, un uomo robusto rischiava di più la vita. Quando sono entrato nel lager pesavo 49 chili, ero molto magro, non ero malato. Molti contadini ebrei ungheresi, pur essendo dei colossi, morivano di fame in sei o sette giorni.
Che cosa mancava di più: la facoltà di decidere?In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di pane allora venivano a galla le altre mancanze, il freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza da casa…
La nostalgia, pesava di più?Pesava soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. La nostalgia è un dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie. Poi venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora. Anche un asino soffre per le botte, per la fame, per il gelo e quando, nei rari momenti, in cui capitava che le sofferenze primarie, accadeva molto di rado, erano per un momento soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia perduta. La paura della morte era relegata in secondo ordine. Ho raccontato nei miei libri la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera gas. Sapeva che per usanza, a chi stava per morire, davano una seconda razione di zuppa, siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato: “Ma signor capo baracca io vado nella camera a gas quindi devo avere un’altra porzione di minestra”.
Lei ha raccontato che nei lager si verificavano pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente alla autodistruzione.Sì, è vero, ed è stato poi studiato da sociologi, psicologi e filosofi. Il suicidio era raro nei campi, le ragioni erano molte, una per me è la più credibile: gli animali non si suicidano e noi eravamo animali intenti per la maggior parte del tempo a far passare la fame. Il calcolo che quel vivere era peggiore della morte era al di là della nostra portata.
Quando ha saputo dell’esistenza dei forni?Per gradi, ma la parola crematorio è una delle prime che ho imparato appena arrivato nel campo, ma non gli ho dato molta importanza perché non ero lucido, eravamo tutti molto depressi. Crematorio, gas, sono parole che sono entrate subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva più esperienza. Sapevamo dell’esistenza degli impianti con i forni a tre o quattro chilometri da noi. Io mi sono esattamente comportato come allora quando ho saputo delle leggi razziali: credendoci e poi dimenticando. Questo per necessità, le reazioni d’ira erano impossibili, era meglio calare il sipario e non occuparsene.
Poi arrivarono i russi e fu la libertà. Come ricorda quel giorno?Il giorno della liberazione non è stato un giorno lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri. Per nostra fortuna i tedeschi erano scappati senza mitragliarci, come hanno fatto in altri lager. I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono rimasti solo gli ammalati e io ero ammalato. Siamo stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi, al gelo, abbiamo mangiato solo quelle poche patate che trovavamo in giro. Eravamo in ottocento, in quei dieci giorni seicento sono morti di fame e freddo, quindi, i russi mi hanno trovato vivo in mezzo a tanti morti.
Questa esperienza ha cambiato la sua visione del mondo?Penso di sì, anche se non ho ben chiara quale sarebbe stata la mia visione del mondo se non fossi stato deportato, se non fossi ebreo, se non fossi italiano e così via. Questa esperienza mi ha insegnato molte cose, è stata la mia seconda università, quella vera. Il lager mi ha maturato, non durante ma dopo, pensando a tutto quello che ho vissuto. Ho capito che non esiste né la felicità, né l’infelicità perfetta. Ho imparato che non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre bisogna trovare la forza per pensare.
Grazie, Levi.Biagi, grazie a lei. 
Da Il Fatto Quotidiano del 26 gennaio 2014

giovedì 23 gennaio 2014

venerdì 20 dicembre 2013

LA VITA E' ADESSO!!!!!!!



INFERMIERA RIVELA I 5 PRINCIPALI RIMPIANTI CHE LE PERSONE HANNO SUL LETTO DI MORTE. Per molti anni ho lavorato nell’ambito delle cure palliative. I miei pazienti sono stati i malati terminali che vengono mandati a casa a morire o negli Hospice . Con loro ho vissuto alcuni incredibili momenti, passando dalle 3 alle 12 ultime settimane della loro vita. Le persone crescono molto quando si trovano ad affrontare la propria mortalità. Ho imparato a non sottostimare mai la capacità di crescita di qualcuno e alcuni cambiamenti sono stati fenomenali. Ognuno ha sperimentato una varietà di emozioni, la negazione, la paura, la rabbia, il rimorso, soprattutto la negazione e alla fine l’accettazione. Ogni paziente però ha trovato la sua pace interiore prima di andarsene, ognuno. Quando chiedevo se ci fossero eventuali rimpianti o qualcosa che avrebbero voluto fare diversamente, emergevano sempre le stesse riflessioni. Ecco i 5 più comuni rimpianti: 1. Avrei voluto avere il coraggio di vivere una vita fedele a me stesso, non la vita che gli altri si aspettavano da me. Questo è il rimpianto più frequente di tutti. Quando le persone si rendono conto che la loro vita è quasi finita e si guardano dentro con chiarezza, è facile vederequanti sogni sono andati irrealizzati. La maggior parte delle persone non ha onorato neanche la metà dei propri sogni e dovrà morire con la consapevolezza che ciò è dovuto a scelte fatte, o non fatte, in prima persona. È molto importante provare e onorare almeno qualcuno dei tuoi sogni lungo la via. Dal momento in cui tu perdi la salute, è troppo tardi. 2. Vorrei non aver lavorato così tanto. Questo è venuto fuori da ogni paziente maschio che ho seguito. Hanno perso la gioventù dei loro figli e la compagnia del proprio partner. Anche le donne parlano di questo rimpianto, ma per la maggior parte si tratta di una generazione più vecchia, molti dei pazienti di sesso femminile non erano dei capofamiglia. Tutti gli uomini che ho seguito rimpiange profondamente di aver speso così tanto della loro vita nella routine di un’esistenza lavorativa . Semplificando il tuo stile di vita e facendo scelte consapevoli lungo il percorso, è possibile non aver bisogno dei guadagni che credi di necessitare. E creando più spazio nella tua vita, si diventa più felici e più aperti a nuove opportunità, quelle più adatte al tuo nuovo stile di vita. 3. Vorrei aver avuto il coraggio di esprimere i miei sentimenti. Molte persone sopprimono ciò che sentono per restare in pace con gli altri. Come risultato, si sono adattati ad una esistenza mediocre e non sono mai diventati chi realmente erano in grado di diventare. Molte malattie sono legate all’amarezza e il risentimento trascinati. Non possiamo controllare le reazioni degli altri. Tuttavia anche se le persone possono inizialmente reagire se tu cambi il tuo modo di essere parlando in maniera onesta, alla fine la relazione si innalza ad un livello tutto nuovo e più salutare. Sia che accada ciò, sia che invece si concluda il rapporto malsano, in entrambi i casi tu vinci. 4. Avrei voluto restare in contatto con i miei amici. Spesso le persone realizzano i benefici che portano le vere amicizie di vecchia data solo nelle ultime settimane di vita e non sempre è possibile rintracciarle. Molti sono stati talmente presi dalla propria vita che hanno lasciato andare via importanti amicizie anno dopo anno. Ci sono molti profondi rimpianti legati al non aver dato alle amicizie il tempo e lo sforzo che meritavano. Tutti quando stanno morendo sentono la mancanza dei propri amici. È comune per chiunque in uno stile di vita impegnato lasciar scivolare le amicizie. Ma quando ti trovi di fronte alla morte che si avvicina, gli aspetti materiali della vita si fanno da parte. Le persone certamente vogliono mettere in ordine i loro affari finanziari se è possibile.Ma non sono i soldi ne lo status sociale ad essere veramente importanti per loro. Loro vogliono mantenere le cose in ordine più che altro a beneficio di coloro che amano. Normalmente però sono troppo malati o stanchi per gestire questo compito. E allora, alla fine, tutto si riduce all’amore e alle relazioni. Questo è tutto ciò che rimane nelle ultime settimane, l’amore e le relazioni. 5. Avrei voluto concedere a me stesso di essere più felice. Questo è un altro rimpianto sorprendentemente comune. Molti realizzano solo alla fine che la felicità è una scelta. Erano rimasti bloccati in vecchi modelli e abitudini. La così detta “zona di comfort “ checontrolla i nostri stati emozionali, così come la nostra vita materiale. La paura del cambiamento li ha portati a fingere con gli altri e con se stessi di essere soddisfatti. Quando nel profondo desideravano solo ridere e vivere una vita più leggera. Quando sei vicino alla morte quello che gli altri pensano di te è lontano dalla tua mente. Che bello essere in grado di lasciar andare e sorridere di nuovo, molto prima di essere in punto di morte. La vita è una scelta. È la TUA vita. Scegli coscientemente, scegli saggiamente, scegli onestamente. Scegli la felicità. Di Bronnie Warehttp://www.unoeditori.com/blog/52-infermiera-rivela-i-5-principali-rimpianti-che-le-persone-hanno-sul-letto-di-morte

martedì 17 dicembre 2013

I DIECI LADRI DELLA TUA ENERGIA

1- Lascia andare le persone che solo condividono lamentele, problemi, storie disastrose, paura e giudizio sugli altri. Se qualcuno cerca un cestino per buttare la sua immondizia, fa sì che non sia la tua mente.
2- Paga i tuoi debiti in tempo. Nel contempo fai pagare a chi ti deve o scegli di lasciarlo andare, se ormai non lo può fare.
3- Mantieni le tue promesse. Se non l’hai fatto, domandati perché fai fatica. Hai sempre il diritto di cambiare opinione, scusarti, compensare, rinegoziare e offrire un’alternativa ad una promessa non mantenuta; ma non farlo diventare un’abitudine. Il modo più semplice di evitare di non fare una cosa che prometti di fare e dire NO subito.
4- Elimina nel possibile e delega i compiti che preferisci non fare e dedica il tuo tempo a fare quelli che ti piacciono.
5- Permettiti di riposare quando ti serve e dati il permesso di agire se hai un’occasione buona.
6- Butta, raccogli e organizza, niente ti prende più energia di uno spazio disordinato e pieno di cose del passato che ormai non ti servono più.
7- Dà priorità alla tua salute, senza il macchinario del tuo corpo lavorando al massimo, non puoi fare molto. Fai delle pause.
8- Affronta le situazioni tossiche che stai tollerando, da riscattare un amico o un famigliare, fino a tollerare azioni negative di un compagno o un gruppo; prendi l’azione necessaria.
9- Accetta. Non per rassegnazione, ma niente ti fa perdere più energia di litigare con una situazione che non puoi cambiare.
10-Perdona, lascia andare una situazione che è causa di dolore, puoi sempre scegliere di lasciare il dolore del ricordo.
DALAI LAMA